Al calar della notte, un colpo di cannone risuona nel cielo di Sarajevo. Intorno alla moschea Gazi Husrev-bey, un monumento del XVI secolo nella città bassa, un certo trambusto attanaglia la folla. I devoti entrano ed escono. Nella strada adiacente, gli spettatori colti nel bel mezzo dello strano balletto volge lo sguardo in direzione della “Fortezza Gialla”. Il forte ottomano sovrasta il flusso di stele bianche del cimitero dei martiri situato ai piedi della capitale bosniaca. “Lo sparo è arrivato dall’alto” dice un giovane in mezzo a un gruppo di turisti americani. “Cos’era quella cosa?” » ne prende un altro. “ Rompere il digiuno del Ramadan rassicura la loro guida con un sorriso.
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Una tale detonazione nella città delle Olimpiadi invernali del 1984 non è mai banale. La sua eco risponde inevitabilmente a quelle tragiche del passato. Dal 6 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, durante l’assedio di Sarajevo – il più lungo del XX secolo – l’esercito della Republika Srpska (Repubblica Serba di Bosnia), con base sulle colline circostanti, ha battuto la città al ritmo di 300 conchiglie al giorno. Almeno 10.000 civili hanno perso la vita lì.